Nella notte del 9 ottobre 1963, una frana cade nel bacino artificiale della diga del Vajont. Una enorme massa d’acqua supera lo sbarramento della diga e si abbatte sulla valle sottostante: le vittime sono circa 2000. La valle del Vajont è una gola alta e stretta che taglia il Monte Toc, sul confine tra Veneto e Friuli. Nel 1928 una perizia la definisce il sito ideale per un bacino idroelettrico e nel 1940 la SADE – Società Adriatica di Elettricità presenta la domanda per la costruzione di una diga. Sono gli anni della Seconda guerra mondiale: sfruttando una situazione di confusione e vuoto di potere, la SADE ottiene i permessi necessari con procedura non regolare. I lavori iniziano nel 1957 tra le proteste degli abitanti, che si sentono in pericolo: la zona è soggetta a frane e la diga potrebbe avere gravi conseguenze sulla stabilità del Monte Toc. La SADE da una parte rassicura la cittadinanza, ma dall’altra modifica il progetto originario, addirittura aumentando la capacità della diga.

Alla fine degli anni ’50 l’Italia si avvia verso la nazionalizzazione dell’energia elettrica: le società private devono cedere i propri impianti allo Stato. La SADE velocizza i lavori per vendere allo Stato un impianto funzionante e quindi più costoso. Il 4 novembre 1960 il Monte Toc ha un cedimento. Perizie geologiche indicano che i continui riempimenti e svuotamenti d’acqua compiuti per i collaudi sono estremamente pericolosi per la stabilità della montagna. La SADE non riferisce i risultati di queste perizie al Ministero e il 14 marzo 1963 lo Stato acquista l’impianto. Dal 2 settembre 1963, all’interno del Monte Toc comincia a verificarsi una serie ininterrotta di scosse. La diga viene comunque riempita per l’ultimo collaudo e l’acqua immessa supera i limiti di riempimento suggeriti dalle perizie. Alle 22,39 270 milioni di metri cubi di roccia si staccano dal Monte Toc, franando nel bacino del Vajont. Un’onda alta più di 100 metri si infrange sulla diga, che regge l’urto e resta intatta. Un muro d’acqua di decine di metri supera però lo sbarramento e cade nella vallata.

Longarone e altri paesi vicini vengono spazzati via nel giro di pochi minuti. Il mattino seguente il territorio è un immenso deserto di detriti. Le case sono abbattute dalle fondamenta e i corpi delle vittime sono stati trascinati a valle per chilometri. Il processo riconosce la responsabilità penale di chi ha diretto i lavori. La frana era stata prevista e il disastro poteva essere evitato. La tragedia, che resta una cicatrice indelebile nella storia della regione, è argomento di un film di Renzo Martinelli e di uno spettacolo di Marco Paolini.
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